sabato 3 febbraio 2018

"DOV'ERA L'INFELICITÀ?" OMAGGIO A DOLORES O 'RIORDAN



Ottobre 2019: Ho scritto questo testo qualche giorno dopo la morte di Dolores O'Riordan, prima di conoscere tutta la sua storia artistica, che ho coltivato successivamente e che tuttora continuo a coltivare. Tante cose, allora, non le sapevo, ma ho voluto fermare le emozioni del momento.

 La morte, citando Guardini, è il compimento della melodia, la conclusione che fornisce un’identità al pezzo, che senza di essa sarebbe confuso fluire, indistinto e inconcluso. Mai come nel caso della morte di Dolores O’Riordan sentiamo la verità di questo assunto. In passato ho ascoltato intensamente Mia Martini, e poi Whitney Houston, dopo la loro scomparsa, Dolores, però, è un’altra cosa, perché il rock è la musica della mia infanzia e adolescenza. La sua musica è rimasta nello scaffale più prestigioso dei miei CD, apprezzata, certo, ascoltata, forse anche amata, ma non realmente conosciuta, fino a quel 15 gennaio del 2018.
Come quei DVD, quei libri che apri un giorno per caso e ti dischiudono un mondo. Ma oggi questa sensazione è collettiva. Il mondo, non solo quello musicale, non solo chi ama il rock, il pop e la musica d’autore, ma molti di più, sembrano essersi accorti che una stella si è spenta, lasciandosi dietro una scia di dolori, emozioni, violenze e gioie che non avevamo compreso. Nell’epoca della denuncia collettiva delle donne, del risveglio contro la violenza maschile, nessuno si era minimamente ricordato della cantautrice irlandese, così stranamente “schiva” rispetto ad altre e altri. E mai come nel caso della morte di Dolores O’Riordan sentiamo vivo il senso della capitiniana compresenza, di tanta musica e tante parole frutto del suo genio che, contemporaneamente, nel mondo, qualcuno sta riproducendo e ascoltando, con un insopprimibile retropensiero: quello di riportarla in vita. Ma, certamente, su un piano più personale, non riesco a pensare a Dolores O’Riordan senza pensare a Sarah McLachlan, all'epoca dei trent’anni, in cui ho scoperto cosa vuol dire trovare la propria “voce femminile”, il senso del proprio ruolo nel mondo, declinato in un’idea del proprio genere. E non riesco a pensare a Dolores senza riflettere sul fatto che siamo coetanee…e non ci sarebbe altro da specificare o commentare, per quella sorta di naturale connessione che lega i pari.

"Infelicità. Dov'è finito il tempo...: Angelo Branduardi, grande autore, non a caso, ha trovato la traduzione migliore.

Ma mi turba, non poco, leggere la data del 2018 a fianco all’anno della nostra nascita nelle parentesi abbinate al suo nome e mi stupisce, ascoltando le parole “dov’era l’infelicità, quando ero giovane e non ce ne importava niente” (Ode To My Family), di dover tornare indietro rispetto al mio automatismo di collocare gli artisti nella loro epoca storica, perché in questo caso la sua epoca storica è la mia. Dov’era l’infelicità quando eravamo giovani? Inizia a sette anni e mezzo, quando davanti a un vetro guardo un lago azzurro/grigio del quale a giorni si coglie la riva opposta e a giorni no e scopro cosa sia, letteralmente, lo “spaesamento”. Più o meno in quegli anni, forse in quei mesi, Dolores scopre uno spaesamento ben più feroce, lacerante, distruttivo. Ed essere coetanee, però, significa anche osservare i volti sofferti, un po’ sfatti, delle compagne di classe di Dolores O’Riordan, che le rendono omaggio durante la funzione religiosa, e rendersi conto, da un lato, che lo splendore è passato e, certo, si continua a vivere in modo luminoso (“Shine On”, dice Sarah McLachlan), ma che l’immagine riflessa dei trent’anni, l’epoca della bellezza, è durata lo spazio di un pomeriggio in cui ci si è specchiate con compiacimento e non ritornerà più. Ma quei volti, pure appesantiti, che immagino legati a donne che vivono la loro vita tra casa, figli, lavoro e non lavoro, mi piacciono, mi raccontano un’artista vera, legata alle sue radici, ai suoi luoghi, alla sua religione (O’Riordan si è sempre professata una cattolica fervente), amata proprio perché continuava a portare con sé qualcosa che il sistema industriale legato alla musica rock non era riuscito a toglierle. Tracce di questo amore si trovano nei singalong dedicati alla cantante dai suoi concittadini di Limerick, in cui centinaia di persone si sono date appuntamento per cantare e suonare le canzoni più note dei Cranberries: qualcuno ha portato la chitarra, qualcuno i bonghi, qualcuno gli archi, qualcun altro solo la voce, lumicini, la propria quieta ma appassionata presenza. I Cranberries, dunque; dire che sono stata una loro fan sarebbe disonesto: ho sempre conosciuto solo le loro hit. Molte persone in questi giorni hanno scritto che cosa Zombie ha significato per loro, allora adolescenti. Per me quel pezzo arrivò in un'era di già pronunciato impegno sociale e di studio; in quel frangente Dolores O’Riordan diveniva per noi immediatamente riconducibile, anche per aspetti politici e sociali (da non intendersi in senso stretto: la giovane O’Riordan era notevolmente conservatrice), oltre che per quelli musicali, agli U2 e a Sinéad. Il rock, non siamo noi a scoprirlo, dal punto di vista dei testi non è né prosa né poesia, ma la capacità di condensare in un verso, racchiuso tra due accordi semplici, un’intuizione geniale.



Tale è, ad esempio, l’ansia crescente trasmessa da quel: “Ma vedi bene/ non sono io/ non è la mia famiglia”, che rappresenta da solo molto di quel brano. La violenza pervade, è dentro e fuori di noi, per difendercene preferiamo rimuoverla e allontanarla più che possiamo, diventandone complici. I Cranberries, soprattutto i componenti maschili, non avevano avuto una formazione musicale vera e propria, ma proprio per questo fecero gradualmente affiorare nella loro musica il timbro autentico del rock, più come una scoperta di suoni, piuttosto che la loro ripetizione. Ma Dolores O’Riordan, che insieme al chitarrista Noel Hogan, è stata autrice di tutti i pezzi dei Cranberries, fu tra le prime a unire disinvoltamente le sonorità “celtiche” al pop rock. Certo, c’era già stata Sinéad O’Connor, altri artisti irlandesi, come Enya o la candese Loreena McKennit, che però sono due artiste folk, ma lei ha contribuito molto a introdurre nella musica pop i suoni e lo spirito di quel che noi definiamo “celtico”. Quando ero appassionata della storia dei Celti, da ragazza, alcune cose mi avevano particolarmente colpito: i Celti erano stati il primo vero popolo dell’Europa; il loro insediamento originario era nell’Europa centrale, le odierne Svizzera, Austria, Germania meridionale. I loro grandi spostamenti, causati dalle invasioni dei popoli dell’Oriente, spinsero i Celti a “deporre in Bretagna e Irlanda le reliquie della loro antica cultura” (I Celti. Barbari d'Occidente, Universale Gallimard, p. 79). Pur se non sappiamo niente della vera musica degli antichi Celti, è suggestivo pensare che nel loro lento transitare dal centro dell’Europa a una sua isola periferica essi abbiano salvato lo Yodel che Dolores aveva imparato dal padre e che irrompe in Dreams. Dreams, che gli austeri critici rockettari, che non amano le smancerie, considerano la vetta più alta dei Cranberries, è una canzone che si proietta nello spazio come un motore rombante appena avviato…il paragone immediato è Born To Run (con cui condivide la tonalità in MI Maggiore) di Springsteen e If It Makes You Happy di Sheryl Crow. Tuttavia, in Dreams e in Linger, le primissime canzoni scritte da Dolores O’Riordan, affiora quella che, per me, è una scrittura caratteristicamente femminile. Molto di questo si agitava, negli anni Novanta, fra le cantautrici che ho citato precedentemente, che sulla scia di Joni Mitchell e Joan Baez, ma anche di Tracy Chapman e Suzanne Vega, facevano maturare il loro stile in un modo che poi avrebbe avuto ottima rappresentanza nel Festival del Lilith Fair che chiuse il “magico” decennio. O’Riordan era poco più che adolescente quando scrisse quelle parole così semplici, ma in qualche modo solenni e memorabili. “La mia vita sta cambiando ogni giorno/in ogni modo possibile”, “Sei una mente splendida/ così comprensivo e gentile/sei tutto per me”. Tutto è etereo e romantico, forse volutamente non tocca la sensualità di altre scritture femminili, ma è nuovo e inedito. Lo stesso risveglio lo troviamo in Linger, il classico – si dice – di Dolores O’Riordan, ma anche la sua primissima canzone, che trasmette un’idea intraducibile di sospensione, di dolcezza, che però prelude a una bruciante delusione, a un desiderio inesaudito. Un incontro con l’alterità maschile sconvolgente ma che vale comunque la pena di vivere. E naturalmente c’è la sua inconfondibile voce; una voce sempre sull’orlo della stonatura, sempre miracolosamente intonata, un fiilo che si spezza e si riannoda continuamente e che rappresenta la vita e l’essenza di Dolores O’Riordan. Amo molto anche la voce matura di Dolores, la voce quarantenne, che si inserisce nelle rivisitazioni acustiche dei suoi stessi classici, contenute nell’ultimo CD dei Cranberries, pubblicato nel 2017.



È una voce che ricorda Emmylou Harris, Bonnie Raitt e che, non a caso, si abbina agli arrangiamenti molto folk dell’album. Come è particolare la musica di Linger, lo è anche quella di Ode To My Family, in cui un semplice giro di accordi contiene una varietà di arpeggi che lo impreziosiscono e arricchiscono. Si tratta di un omaggio alla famiglia e alla casa. Forse soprattutto di un omaggio all’infanzia che più non tornerà, un rimpianto reso significativo da un presente non programmato. “Cerca di comprendere che quel che sono diventata/ non era il mio progetto”. Quando Dolores è morta, sono fioriti degli omaggi autentici e positivi, la sua musica è stata celebrata, molte persone hanno scritto che cosa lei abbia significato per loro. I media, invece, hanno preferito scavare nel passato difficile e ombrato di mistero della cantautrice, riconducendo ogni sua espressione agli abusi infantili. Una scelta discutibile, ma che non lascia indifferenti e non può non farci leggere soprattutto i suoi testi sotto una luce particolare. Allora quel ripianto dell’infanzia e della famiglia si tinge di colori diversi e perde la sua patina d’idillio. ”Mia madre, allora, mi teneva/ mio padre mi adorava, quando ero lì”, ma anche: “A qualcuno interessa? A qualcuno interessa? Non mi hai trovato, non mi hai trovato”. Dolores salva con grande amore la sua famiglia dalla colpa di non averla potuta proteggere, ma è tormentata dal dolore di non essere trovata o capita. Perché, lo sappiamo, il più grande dolore delle vittime della violenza, è quello di non perdonarsi e non sentirsi perdonate per una colpa che hanno subito e non commesso. I media, quindi, hanno tempestato il pubblico di informazioni sulla depressione, l’anoressia e l’abuso di farmaci. Questi aspetti devono avere sicuramente influito sul percorso di vita di Dolores, ma non sappiamo ancora (e forse non lo sapremo) né come né quanto, abbiano contribuito alla sua morte. Di sicuro lei è stata una di quelle artiste e quegli artisti che hanno vissuto in pieno lo stritolamento dello Star- System: lo ha detto, lo ha scritto e lo ha cantato. Lo Star-System uccide spesso, specie quando una persona non riesce a ricondurlo entro un proprio modo di vivere e quando esso si allontana tanto dalla cultura di provenienza di una persona, quando non sono presenti, in un momento sfortunato, altri appigli che rendono realmente significativa la vita.



Gli artisti della musica che amo di più hanno avuto un loro modo di esprimere il disagio del divismo: Sarah McLachlan ha espresso in Angel lo smacco dello stress, lo stritolamento esistenziale del successo e il finale confronto con la possibilità della fine. Jackson Browne con l’album Running on Empty ha lasciato una secolare testimonianza di che cos’è, veramente, il rock: non un fatto di glamour, ma un susseguirsi di giorni di routine; scaricare camion, montare palchi, cercare compagnie temporanee per sentirsi meno sradicati, “cercare gli amici cui ci si rivolgeva per un aiuto, guardare nei loro occhi e vedere che anche loro stanno correndo” (Running on Empty). Molti dicono che il disagio proveniente dalla vita da star sia ben lussuoso e che sia immorale parlare di dolore e disperazione per persone che navigano nell’oro. Io credo che le persone che fanno queste critiche non attribuiscano alcun valore simbolico all’arte e alla musica, togliendole il suo contenuto. Certo, è poi vero che il successo non perdona, soprattutto quando ha riempito improvvisamente la vita di una persona e poi questa si è gradualmente allontanata dalla coscienza del pubblico e le radio non passano più i pezzi dei Cranberries e i giovani ascoltano altre cose. Allora una morte improvvisamente ci ricorda chi fosse Dolores O’Riordan e cosa sia stata per la musica, come quella di Tom Petty ci aveva ricordato improvvisamente che il rock aveva avuto un suo volto verace, sociale, aveva parlato di riscatto e autorealizzazione. Dolores provò, negli anni d’infanzia e di gioventù dei figli, a stare fuori dallo Star-System. Ci provò e ci riuscì. Ci riuscì per diversi anni a metà del primo decennio degli anni Duemila. Il suo matrimonio durò vent’anni ed ebbe tre figli, non era un matrimonio fallito, come si legge, era un matrimonio normale di una donna della sua generazione, né migliore né peggiore delle unioni di molte di noi. Un autore ha collegato Zombie al tema dell’abuso sui bambini, che è stato sempre caro a Dolores O’Riordan. Il tema è che la violenza non dimentica, ti perseguita, se non trovi il modo di spezzarne la catena e il mondo non ti aiuta a spezzare la catena; e la violenza che subiscono i bambini in guerra non è molto diversa da quella che subiscono in condizioni individuali e fuori dagli occhi del pubblico. La violenza non dimentica…"la morte non dimentica", come recita il titolo del libro di Dennis Lehane da cui Clint Eastwood trasse Mystic River, un libro così profondamente irlandese che a pensarci oggi mi vengono i brividi. Io penso che gli Irlandesi abbiano una capacità di raccontare il dolore e la tristezza particolare. Saranno ragioni storiche, saranno religiose o geografiche. Quando pensiamo a Springsteen, ad esempio, ci compiacciamo di quanto i suoi geni italiani gli abbiano dato forza, energia, sicurezza di quello che era e poteva diventare, ma per quanto riguarda i toni, i significati, l’intensità poetica della sua arte e quella persona minuta che soffre ed è disperata, ma quando sale su un palco riesce a trasmettere gioia ed energia, è l’Irlanda che parla.

E l’Irlanda, naturalmente, parlava in Dolores O’Riordan, una donna che ha regalato tanta gioia e tanta vita e la cui musica continua ad essere un dono quotidiano.

                                         Limerick, 2 settembre 2018

Spunti dalla rete (7/12/2019)

La lettera di David Grieco: il regista italiano (Evilenko, La macchinazione), scrive in modo accorato all'autrice, manifestando il rimpianto per non averla ammonita rispetto a un'inquietudine esistenziale che li aveva uniti e che traeva origine da una comune infanzia difficile.
Il saggio di Alessandro Montosi: lo scrittore italiano ricostruisce l'ambiente storico/letterario e mitologico, con ricchezza di riferimenti, dell'Irlanda della cantautrice.
La riflessione di Primonumero: l'omaggio è scritto da un punto di vista psicanalitico e evidenzia la sensibilità dell'autrice rispetto al tema della violenza sui bambini, di cui "Zombie" è stato emblema.
La lettera di Charles Tanzer: il giornalista americano rievoca l'importanza di Dolores O'Riordan per la sua stessa generazione, alla quale ha offerto una voce drammatica, ma anche ricca d'impegno etico/sociale, che ha influenzato chi, giovane negli anni Novanta, lavorava alla propria autorealizzazione.
Il ricordo di Alicia Thompson: la scrittrice americana revoca l'importanza dell'autrice per gli adolescenti degli anni Novanta, ai quali e - soprattutto - alle quali ha offerto un modello d'identificazione di genere autentico e, in qualche modo, ribelle.

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