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sabato 12 dicembre 2020

PAOLO ROSSI, GLI ANNI OTTANTA, LA SOLITUDINE E LA FELICITA'



Quando si è piccoli il calcio ha un significato diverso, è come se insegnasse la vita, così come la musica e il cinema quando si è adolescenti. Tutto ha il sapore della scoperta, tutto è primordiale. 

Nel 1982 nacque una grande passione, non so, appunto, se per il calcio o per la vita. Non so se ci fosse qualcosa prima di Paolo Rossi. 


Forse Gigi Riva, di cui un’antologia di scuola addirittura recava una testimonianza. Mio padre, da sardo, lo ammirava, mia madre lo aveva visto a Cagliari qualche anno dopo essere arrivata dal Friuli. C’era molto Friuli, a proposito, in quella Nazionale: Bearzot di Aiello e Collovati di Rivignano in provincia di Udine, Zoff di Mariano, proprio vicino al paese materno.
Era una compagine epica, i cui protagonisti erano dei prototipi: Cabrini, la fiera e dolce bellezza, Scirea, l’etica saggia, Oriali, l’umile tenacia di Una vita da mediano, Conti, l’infaticabile giocoleria, Bergomi, la valorosa giovinezza, Gentile, la forza bruta, Tardelli, boh...ammetto che non era il mio preferito. Poi c’era Rossi, gracile, guizzante, controverso, quasi ambiguo. A ripensarci era il meno epico, lui con il suo nome così banale, lui che prima della tripletta al Brasile sembrava un fantasma in campo. Eppure lo amavo. Vedevo in lui dolore, riscatto, paradossale autenticità.
Penso ai colori e ai tipi di quel periodo: l’azzurro...non sto neanche a spiegarlo, cosa potesse significare. L’oro, il fulgido colore avversario, che si esprimeva con la raffinata intelligenza di Falcao, con il tiro da 100 km/h di Eder, con la puntigliosa fierezza di Socrates, con il mito un po’ sbiadito di Zico. Imparai il calcio, le regole, le maglie. Le maglie oro che divennero bianconere (udinesi e non juventine) per Zico, viola per Socrates, giallorosse per Falcao,... Leggevo tutto: Cernusco sul Naviglio, Casal Pusterlengo, Prato e Vicenza. Famiglie povere, famiglie benestanti...
Italia-Polonia la seguimmo in macchina, Rossi segnò mentre eravamo nella galleria del Gottardo e fu un confuso urlare sconnesso. Poi arrivò la finale, la sera dell’11 luglio, per certo eravamo a casa di mia zia. Fu una gioia immensa, totale, senza alcun’ombra. 
In corrispondenza a quella vincita mondiale, sento dire, per l’Italia era un bel periodo, perché si “usciva” dagli anni di piombo. In  realtà viverli, gli anni Ottanta, non era poi questo grande spasso. Un'immagine mi perseguita, quando penso alla prima metà di quel decennio: una camminata solitaria dal mio quartiere verso l'ospedale di San Martino, io che vado, non so dove e che sento un cattivo odore proveniente dal mattatoio e il mondo mi sembra un luogo opaco e insicuro. Nonostante tutto, la cifra di quegli anni rimane un'aspra, inattaccabile solitudine.
Potremmo pensare che è perché coincide con l'adolescenza di molti di noi, ma non credo si tratti solo di questo. Penso che in realtà quegli anni siano anni sospesi, il riflusso rinchiudeva i giovani in bolle di una vita, per quanto ricca di strumenti e dispositivi che avrebbero cambiato per sempre la vita di tutti (Mario Garzia, Back To The 80s) senza un grande impegno sociale e senza continuità con quello che era stato prima. Eppure, fatichiamo a ritrovare in quel tempo le radici del nostro presente e negli anni che seguirono, i frutti di quello stesso tempo.
Il calcio divenne il mio rito sempre più solitario. Dopo il mondiale iniziammo - ancora il cordone ombelicale con la famiglia non si era spezzato - a guardare le partite della Juventus in coppa e a seguire il Cagliari in campionato. Mi innamorai del centroavanti, il centroavanti come concetto. La mia mente femminile non concepiva il valore del 10, non era roba per me. Mi innamorai davvero di Paolo Rossi, né il 5 né l'11 luglio del 1982, ma quella sera che entrò in campo con una fasciatura alla caviglia. Doveva essere una trasferta della coppa dei campioni, perché la squadra non era in bianconero.
E perdere la coppa e andare in serie B, e piangere...andare al campo a vedere la Tharros. Mio zio mi aveva fatto un abbonamento e mi disse: Quando posso ti accompagno, altrimenti vai da sola. E andavo e - diciamo la verità - mi godevo questa santa solitudine. Nessuno mi importunava, mi divertivo a osservare signori con la berritta che sgranocchiavano noccioline e che guardavano il gioco senza fanatismo e senza civetteria. 15, 16 anni dopo, allora sempre in compagnia, toccò a me osservare una giovane donna che veniva sempre al Sant’Elia da sola e che gradualmente familiarizzò con i gruppi e le famiglie che popolavano la Curva Sud.
Penso al giorno dopo la finale del campionato mondiale: mia cugina ed io andammo tre volte all’edicola per comprare la Gazzetta dello Sport, che regolarmente risultava esaurita. Una pedalava e l’altra stava in piedi sul portabagagli della bicicletta. Chissà perché ci interessava tanto avere la copia di quel giornale; sono sicura che non fossero stati affatto gli adulti a richiederla. Eravamo noi che volevamo fermare l'immagine di quella, forse ultima, felicità perfetta e portarla con noi, anche perché intuivamo che il suo ricordo ci sarebbe stato di grande aiuto negli anni a venire.