sabato 12 dicembre 2020

PAOLO ROSSI, GLI ANNI OTTANTA, LA SOLITUDINE E LA FELICITA'



Quando si è piccoli il calcio ha un significato diverso, è come se insegnasse la vita, così come la musica e il cinema quando si è adolescenti. Tutto ha il sapore della scoperta, tutto è primordiale. 

Nel 1982 nacque una grande passione, non so, appunto, se per il calcio o per la vita. Non so se ci fosse qualcosa prima di Paolo Rossi. 


Forse Gigi Riva, di cui un’antologia di scuola addirittura recava una testimonianza. Mio padre, da sardo, lo ammirava, mia madre lo aveva visto a Cagliari qualche anno dopo essere arrivata dal Friuli. C’era molto Friuli, a proposito, in quella Nazionale: Bearzot di Aiello e Collovati di Rivignano in provincia di Udine, Zoff di Mariano, proprio vicino al paese materno.
Era una compagine epica, i cui protagonisti erano dei prototipi: Cabrini, la fiera e dolce bellezza, Scirea, l’etica saggia, Oriali, l’umile tenacia di Una vita da mediano, Conti, l’infaticabile giocoleria, Bergomi, la valorosa giovinezza, Gentile, la forza bruta, Tardelli, boh...ammetto che non era il mio preferito. Poi c’era Rossi, gracile, guizzante, controverso, quasi ambiguo. A ripensarci era il meno epico, lui con il suo nome così banale, lui che prima della tripletta al Brasile sembrava un fantasma in campo. Eppure lo amavo. Vedevo in lui dolore, riscatto, paradossale autenticità.
Penso ai colori e ai tipi di quel periodo: l’azzurro...non sto neanche a spiegarlo, cosa potesse significare. L’oro, il fulgido colore avversario, che si esprimeva con la raffinata intelligenza di Falcao, con il tiro da 100 km/h di Eder, con la puntigliosa fierezza di Socrates, con il mito un po’ sbiadito di Zico. Imparai il calcio, le regole, le maglie. Le maglie oro che divennero bianconere (udinesi e non juventine) per Zico, viola per Socrates, giallorosse per Falcao,... Leggevo tutto: Cernusco sul Naviglio, Casal Pusterlengo, Prato e Vicenza. Famiglie povere, famiglie benestanti...
Italia-Polonia la seguimmo in macchina, Rossi segnò mentre eravamo nella galleria del Gottardo e fu un confuso urlare sconnesso. Poi arrivò la finale, la sera dell’11 luglio, per certo eravamo a casa di mia zia. Fu una gioia immensa, totale, senza alcun’ombra. 
In corrispondenza a quella vincita mondiale, sento dire, per l’Italia era un bel periodo, perché si “usciva” dagli anni di piombo. In  realtà viverli, gli anni Ottanta, non era poi questo grande spasso. Un'immagine mi perseguita, quando penso alla prima metà di quel decennio: una camminata solitaria dal mio quartiere verso l'ospedale di San Martino, io che vado, non so dove e che sento un cattivo odore proveniente dal mattatoio e il mondo mi sembra un luogo opaco e insicuro. Nonostante tutto, la cifra di quegli anni rimane un'aspra, inattaccabile solitudine.
Potremmo pensare che è perché coincide con l'adolescenza di molti di noi, ma non credo si tratti solo di questo. Penso che in realtà quegli anni siano anni sospesi, il riflusso rinchiudeva i giovani in bolle di una vita, per quanto ricca di strumenti e dispositivi che avrebbero cambiato per sempre la vita di tutti (Mario Garzia, Back To The 80s) senza un grande impegno sociale e senza continuità con quello che era stato prima. Eppure, fatichiamo a ritrovare in quel tempo le radici del nostro presente e negli anni che seguirono, i frutti di quello stesso tempo.
Il calcio divenne il mio rito sempre più solitario. Dopo il mondiale iniziammo - ancora il cordone ombelicale con la famiglia non si era spezzato - a guardare le partite della Juventus in coppa e a seguire il Cagliari in campionato. Mi innamorai del centroavanti, il centroavanti come concetto. La mia mente femminile non concepiva il valore del 10, non era roba per me. Mi innamorai davvero di Paolo Rossi, né il 5 né l'11 luglio del 1982, ma quella sera che entrò in campo con una fasciatura alla caviglia. Doveva essere una trasferta della coppa dei campioni, perché la squadra non era in bianconero.
E perdere la coppa e andare in serie B, e piangere...andare al campo a vedere la Tharros. Mio zio mi aveva fatto un abbonamento e mi disse: Quando posso ti accompagno, altrimenti vai da sola. E andavo e - diciamo la verità - mi godevo questa santa solitudine. Nessuno mi importunava, mi divertivo a osservare signori con la berritta che sgranocchiavano noccioline e che guardavano il gioco senza fanatismo e senza civetteria. 15, 16 anni dopo, allora sempre in compagnia, toccò a me osservare una giovane donna che veniva sempre al Sant’Elia da sola e che gradualmente familiarizzò con i gruppi e le famiglie che popolavano la Curva Sud.
Penso al giorno dopo la finale del campionato mondiale: mia cugina ed io andammo tre volte all’edicola per comprare la Gazzetta dello Sport, che regolarmente risultava esaurita. Una pedalava e l’altra stava in piedi sul portabagagli della bicicletta. Chissà perché ci interessava tanto avere la copia di quel giornale; sono sicura che non fossero stati affatto gli adulti a richiederla. Eravamo noi che volevamo fermare l'immagine di quella, forse ultima, felicità perfetta e portarla con noi, anche perché intuivamo che il suo ricordo ci sarebbe stato di grande aiuto negli anni a venire.




lunedì 31 agosto 2020

IL MOSTRO NON SE NE VA




Parlo del Mostro di Firenze. Sono stata da sempre appassionata alla storia contemporanea italiana. Mi appassionano le storie che in qualche modo ho “vissuto”, quelle in cui storia personale e storia collettiva si  uniscono e si confondono. Innanzitutto ho scoperto che la storia del mostro di Firenze è vivissima e presente nella coscienza di internauti, blogger, persone di diverse generazioni che sono state, a qualche titolo, toccate da quella che è un’enorme straziante tragedia. 

Ho scoperto che ognuno ha il proprio mostro, la propria idea su come siano andate le cose ed è irremovibile e chiuso sulle proprie posizioni. Quasi tutti ma non tutti: Paolo Cochi, regista, giornalista, documentarista e scrittore, che studia il caso da vent’anni mo sembra invece un autore aperto, equilibrato. È di quest’anno la riedizione di un libro

che ripercorre il caso con un’idea determinata ma anche con volontà di offrire più informazioni e nozioni possibili della vicenda.

Credo che i fatti siano piuttosto noti, inutile ripercorrerli, vorrei solo aggiungere alcuni elementi che trovo, talvolta, accennati, ma mai troppo approfonditi, sul caso del mostro di Firenze. Vorrei anche dire che in questo caso le verità giudiziarie sono, per me, come per altri più competenti, errate, non credo, quindi, nel Pacciani mostro, nei "compagni di merende" e tanto meno nei mandanti/esecutori o in piste sataniche e esoteriche. Cosa si potrebbe, allora, aggiungere a quanto già detto e scritto?

1. I delitti del Mostro si collocano in un periodo storico particolare: 1968-1985. È strano che non si sia mai pensato al fatto che, pur essendo un killer di questo tipo un personaggio solitario ed estemporaneo, i suoi delitti si collocano pur sempre in un’epoca e un contesto storico. Nel lasso di tempo in cui ha agito, l'Italia ha attraversato eventi di enorme importanza: i movimenti studenteschi e operai, il dilagare del femminismo da una parte, la strategia della tensione dall’altra, gli anni di piombo, l’assassinio di Moro, la morte di Berlinguer. Cosa ha a che farà tutto ciò con i delitti del mostro? Forse niente, ma forse qualcosa sì. L’epoca storica è stata contrassegnata da una transizione, che ha portato le nuove generazioni a concepire una libertà sessuale sconosciuta a quelle del passato (parliamo di generazione in senso impreciso, perché le prime vittime del mostro erano degli anni ‘30/‘40 e le ultime degli anni ‘60). La criminologa Roberta Bruzzone in un’intervista ha spiegato che gli omicidi come il mostro di Firenze non scelgono esattamente le vittime ma i luoghi e le circostanze. Ciò non toglie che egli abbia seguito alcune delle vittime femminili, prima del delitto. Tuttavia, i suoi delitti avevano un qualche intento punitivo: colpiva i giovani intenti ad amoreggiare in macchina, persone che quindi avevano rapporti extra-coniugali o piuttosto pre-coniugali, che erano amanti clandestini, in un caso, forse una coppia gay, in un altro caso. Doveva essere una persona che provava una profonda rabbia per la libertà sessuale giovanile, ma non solo, per il fatto che questa libertà se la prendessero non ragazzi e ragazze ricchi e ricche, ma giovani lavoratori, che infatti non è che avessero seconde e terze case da utilizzare allo scopo indicato. Le vittime del mostro sono state soprattutto vittime di una libertà sessuale che avevano conquistato ma di cui non potevano usufruire a pieno, perché c'erano altri che se ne potevano prendere di più e meglio. Secondo me c'era anche un po' di odio di classe da parte del mostro, per questi giovani, che erano così "poveri ma belli" e innamorati. Anzi, quello che mi colpisce di più, quando guardo le immagini delle vittime del mostro, è la loro bellezza e pulizia.

2. La pista sarda: come forse è noto, il primo delitto del mostro di Firenze, del 1968, riguardò una coppia di amanti di cui la donna era sarda. Si trattava di un'emigrata in Toscana di modeste origini, che aveva sposato un uomo, suo corregionale, di quasi vent'anni più anziano e che era famosa nel comune per il numero di amanti e per la celerità con la quale li cambiava (non è escluso che, semplicemente, si prostituisse). Nelle ricostruzioni delle indagini dell'epoca, mi sembra che emerga il fatto che gli inquirenti avessero avuto uno sguardo pregiudiziale verso il microcosmo degli emigrati sardi. Si parla di "clan": di un gruppo di persone che avrebbero avuto l'intenzione di eliminare una donna del loro gruppo perché aveva iniziato ad avere rapporti sessuali con gente "altra". Affiorano idee il cui sfondo sottinteso è: sardo uguale criminale. Si parla di delitto d'onore, di delitto passionale. Un po' estraneo alla "cultura" criminale sarda, spietata ed efferata senza dubbio ma molto sbilanciata su un unico grande movente: il denaro. Il marito della vittima era succube della situazione, definito "oligofrenico": non può essere, invece, che fosse semplicemente un "nonviolento" ante litteram, che non era geloso della moglie? Un sardo così? Agli inquirenti non sembrò plausibile. Quando, appena nel 1982, anche il delitto del 1968 fu collegato a quelli successivi, nacque un filone d'indagine che scoperchiò alcune torbide relazioni tra i componenti delle famiglie sarde coinvolte, anche con tanti interessanti spunti, ma mantenendo una prospettiva inattuale del mondo osservato, al quale veniva attribuita una misoginia, una sessuofobia e una repressione che forse non erano maggiori che nel resto dell'universo umano dell'epoca.

Documentario su Villacidro realizzato dallo scrittore Giuseppe Dessì.

Questo non significa, naturalmente, che il mostro non possa essere sardo o proveniente da questo giro (un candidato c'era, in quel contesto, e anche notevolmente attinente). Ma se lo è - questa la mia opinione - i suoi atti si collocano in una dimensione del tutto individuale, completamente avulsa dall'ambiente di provenienza, che difficilmente può averne protetto le azioni.

C'è molto materiale, come dicevo, su questa vicenda, molto del quale raccolto negli anni da Paolo Cochi e da alcuni altri.

Segnalo la suggestiva tesi di Nino Filastò,  per il quale non si spiega il fatto che il mostro abbia ucciso per 17 anni indisturbato, senza mai suscitare la benché minima reazione dei giovani, se non per il fatto di essere un poliziotto, uno dei Servizi Segreti o comunque delle istituzioni. Filastò, a conferma della sua tesi, cita il fatto che sulla scena del crimine si siano trovati, non riposti, libretti di circolazione, documenti d'identità, ecc., che evidentemente ai ragazzi era stato chiesto di esibire. Cita anche il fatto che i finestrini sono spesso infranti, nonostante i proiettili usati potessero forare i vetri senza spaccarli. Il mostro li avrebbe infranti per non far capire che erano stati abbassati dai giovani per rispondere alle domande di quello che credevano essere una persona della Pubblica Sicurezza.




Mario Spezi e Douglas Preston, in Dolci colline di sangue, sostengono una pista sarda rivisitata, che mi sembra poco realistica, anche se indubbiamente suggestiva.

Altre piste, molto articolate, sono difficilmente riassumibili e vanno attentamente evinte dalla lettura degli interessanti blog che segnalo qui sotto:







www.sienanews.it 

Ci sono due film dell'epoca sulla vicenda, ambedue del 1986 (a proposito, come facevano i registi a sapere che il delitto del 1985 sarebbe stato l'ultimo, almeno ufficialmente?): non credo che aggiungano granché alle consapevolezze investigative, ma certamente restituiscono alcuni sentimenti e timori di quegli anni.






Poi c'è una serie televisiva del 2009, diretta da Antonello Grimaldi, che mi sembra ben fatta e ben interpretata


Ultimamente ho sentito, forse, il bisogno di uno sguardo femminile sulla storia del mostro. Non bisogna dimenticare che la caratteristica principale dei delitti in questione è l'odio per le donne, un odio che si è espresso anche in una sfida viscerale con Silvia Della Monica, unico magistrato di sesso femminile che si sia mai occupato del caso.
Ho, quindi iniziato a leggere il libro di Carmen Gueye, Il Mostro di Firenze. John Doe in Toscana, la storia osservata da un passante.

Uno dei ricordi più diretti che ho della vicenda è un'intervista a un gruppo di ragazzi, nel momento in cui la paura dilagò e giovani e genitori cominciarono a porsi il problema di come affrontare il pericolo, anche cambiando abitudini e mentalità. Ascoltavo, allora, quelle parole di ragazzi in fondo non molto più grandi di me. Visti oggi fanno molta tenerezza e, per la verità, un po' anche a quel tempo. Sicuramente, finché le povere vittime non avranno avuto giustizia, il mostro potrà anche essere morto fisicamente, ma non se ne sarà andato.




www.elencoblog.net

https://dietta71.blogspot.com/2020/08/il-mostro-non-se-ne-va.html?spref=bl


mercoledì 5 agosto 2020

LA NOTTE DELLA REPUBBLICA

Nel giorno in cui scompare Sergio Zavoli, un altro grande novantenne, ripenso alla sua opera, televisiva e letteraria (parlo intenzionalmente di letteratura pur riferendomi a un documentario) La notte della Repubblica.
Mia madre mi registrò tutte le puntate del lungo documentario sugli anni del terrorismo, minuziosamente, in una ventina di videocassette, negli anni Novanta. Comprai anche i libri e passai i giorni di vacanza di un Capodanno a guardarle, in compagnia, tra l’altro. Non eravamo secchioni o strani, semplicemente la storia dell’Italia ci stava a cuore o nel cuore. Niente di più che la storia del Paese in cui eravamo nati, negli anni in cui siamo nati.
Adoravo lo stile, i colori e le parole della Notte della Repubblica, in cui tutto era cupo, sobrio ma mai inumano e nemmeno triste. Certamente inquietante, ma non ci voleva Zavoli per rendere gli anni dal 1969 agli anni Ottanta inquietanti, c’era parecchio materiale utile allo scopo, nella cronaca politica e non solo.
Anche l’estate scorsa ho rivisto l’intervista di Zavoli a Franco Bonisoli, quest’uomo che si contorce, nauseato, che si commuove, che implora di fermare la telecamera. Mi ha sempre fatto pensare - chissà - al miracolo del pentimento. E gli occhi di Moretti, impassibili, in qualche modo vitrei, seppur banalmente castani, di un uomo che vive in un mondo a parte.
Ma la scena più bella de La notte della Repubblica non riesco a ritrovarla né nei libri, né nelle puntate di Raiplay. È quando il terrore finisce, comincia Sotto il segno dei pesci di Venditti, bambini girano felici nelle giostre. Nei muri delle città, un tempo testimoni del conflitto, compaiono scritte “Ti amo; T.V.B”, ecc. ecc. Alcuni potrebbero definirlo “riflusso”, a me pare una piccola rinascita. Forse mi sono solo sognata queste immagini, che erano solo nel programma registrato da mia mamma, che voleva regalarmi un momento di distensione. 
Claudia Secci. 

sabato 11 luglio 2020

GLI SPROLOQUI DI SALVINI E L’EREDITÀ DI ENRICO BERLINGUER




Matteo Salvini ha affermato che il movimento del quale è capo è il vero erede della politica sociale del PCI di Berlinguer.
L’assurda, paradossale affermazione potrebbe originare da diversi fattori: primo fra tutti, l'ignoranza storica del Senatore, che non sa che la visione prospettica di Berlinguer era antitetica alla sua. 

Era incompatibile con ogni forma di xenofobia; era fondata sulla questione morale e su un certo riserbo nella vita privata; era fortemente internazionalista ed era vicina a tutti i popoli oppressi. Berlinguer, come oggi D'Alema, era vicino alla causa palestinese, al punto da ricordarlo anche nel suo discorso parlamentare del 16 marzo del 1978, proprio quel giorno.


Inoltre, Salvini è un provocatore, e quel che dice è in linea con la scelta estremamente provocatoria di istituire la sede romana della Lega in via delle Botteghe Oscure, vicino alla storica sede del Partito Comunista.
Infine, la Lega non ha navigato in buone acque, ultimamente, come i sondaggi avranno sicuramente segnalato al suo leader, ed era opportuna un’uscita in direzione dell’ex classe operaia ormai disillusa, scontentata da tutti, da ultimo anche poco entusiasta del Movimento Cinque Stelle.

Io credo, però, che l’immediata risonanza dei vaneggi di Salvini non sia dovuta solo alla bislaccheria del loro contenuto. Penso, invece, che l’eredità berlingueriana, che è tutt’uno con quella del comunismo italiano, sia un grande problema della sinistra odierna. Mentre, infatti, un uomo come Berlinguer non passa di moda, è passato di moda il berlinguerismo, anche per le ragioni prima dette. Sono fortemente osteggiati gli eredi "oggettivi" di Enrico Berlinguer, le persone che egli aveva vicine e che, più probabilmente, avrebbero cercato di proseguirne l'operato. 

Persone della minoranza della sinistra (minoranza della quale orgogliosamente faccio parte, essendo rimasta - si parva licet - "fedele ai miei ideali di gioventù") che si trovano, a mio avviso,  più fuori che dentro il PD. Berlinguer è, paradossalmente, "un’icona per molti che non lo hanno capito, non lo hanno conosciuto, non sapevano chi fosse" (Intervista su Nuova Atlantide), come Jovanotti, per sua stessa ammissione, che compare nelle testimonianze raccolte da Veltroni.

Ma quando è la moda a governare la politica, allora solo la "tendenza" la fa da padrone; infatti fanno sorridere le reazioni alle affermazioni di Salvini provenienti da persone entrate a far parte dei gruppi dirigenti della sinistra con la rottamazione di qualche anno fa, una rottamazione che voleva demolire proprio quel che restava di Berlinguer.
La verità è che molta parte della sinistra ha paura del suo passato. L'anticomunismo è talmente diffuso come ideologia sotterranea che rischiamo di esserne colpiti proprio noi, ex- e post-comunisti. Un mese fa è stato l'anniversario della morte di Berlinguer, ma nessuno ci ha pensato, perché si era tutti molto occupati a difendere la memoria di Indro Montanelli, proprio per una questione per la quale non era difendibile.
E così, la tendenza e la "fighezza" dettano l'agenda politica. La storia del comunismo italiano è travisata o sminuita.
Poi ci sono i paradossi: Bella Ciao è uno dei canti più conosciuti e amati al mondo, inno per tanti attivisti di diverso genere e di diverse generazioni. Durante il lockdown, a un certo punto, è stata anche un canto di solidarietà nei confronti dell'Italia: vogliamo dimenticarci anche di questo?

Claudia Secci

P. S. Questa l’interpretazione di Bersani:


La mia copia di A Mosca l’ultima volta. Enrico Berlinguer e il 1984 di M. D’Alema

venerdì 10 aprile 2020

LA MEGLIO GIOVENTU' E L'"IMMAGINARIO COLLETTIVO"



Spesso parliamo del cinema riferendoci alla nozione di "immaginario collettivo", ma forse abbiamo delle idee differenti su cosa questa definizione significhi. 

Io penso all'immaginario collettivo come a un "serbatoio" di immagini più o meno condivise nel contesto culturale in cui viviamo, che possono agevolmente rappresentare delle idee e dei sentimenti. Forse ci illudiamo sul fatto che queste immagini siano univoche e rappresentino per tutti la stessa cosa, ma sicuramente non è così. Tuttavia, è vero, queste immagini contengono qualcosa di misteriosamente comunicante.

Quando penso alla mia idea di immaginario collettivo, il primo film che mi viene in mente è Thelma & Louise, perché dice "troppo" sul femminile, sulla sorellanza, sull'amicizia, al punto che nella vita quotidiana le sue immagini saltano fuori con abbondanza.

Susan Sarandon, sorridente, con occhiali scuri e fazzoletto in testa e Geena Davis, con sorriso smagliante occhi con trucco azzurro.

Tuttavia, le immagini della mia storia, legate a problemi quotidiani di potere, di collocazione sociale, di rapporti intergenerazionali in cui c'è sempre qualcuno che vuole prevaricare sull'altro, provengono da filmoni americani degli anni Sessanta. Sono film che erano già classici ai tempi in cui li abbiamo conosciuti e che, stranamente, lo sono rimasti. Al centro della scena, è strano, c'è sempre un padre e un figlio:

In Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer del 1967, il personaggio di Sidney Poitier rivendica la sua scelta sentimentale verso il padre, che, rimproverandogli una vita di sacrifici, gli manifesta la sua delusione perchè il figlio ha scelto di sposare una donna di altra etnia e cultura.
L'altra scena memorabile è invece ne La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks, del 1958. Il figlio negletto, meno interessante e irrequieto (Jack Carson), ma in carriera e con numerosa prole, sempre alla ricerca dell'approvazione del padre, si confronta con quest'ultimo. "Sinceramente non m'importa di non essere il tuo preferito, voglio solo tutelare i miei legittimi interessi, d'altronde non sarà diventato avvocato per nulla", gli dice. Come a dire, un po' in ambedue gli esempi, che usiamo ciò che ci hanno regalato i nostri genitori anche contro di loro, pur di sopravvivere. Ingrato, forse, ma non scorretto.

Ultimamente, tuttavia, forse per ragioni legate alla nostra situazione contingente, ritornano in mente immagini più “nostrane”:
https://youtu.be/Fs8wrenJzcY
Il primo piano dell'attrice Lidia Vitale, in questi giorni sostituita da quella del Giudice Giovanni Falcone


Questo spezzone de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (2003) contiene tre scene che raccontano uno snodo fondamentale nell'esistenza del personaggio principale Nicola Carati (Luigi Lo Cascio) e, contemporaneamente, uno snodo fondamentale nella storia italiana. Nicola, mentre si trova a Milano per una consulenza psichiatrica a un imputato per tangenti, scorge un manifesto di una mostra fotografica in cui riconosce lo sguardo del fratello, morto suicida anni prima. Nicola cerca di mettersi in contatto con l'autore dello scatto e scopre che si tratta di una fotografa siciliana e, dopo qualche esitazione, decide di partire per Palermo, dove incontra la sorella maggiore Giovanna (Lidia Vitale), magistrato dal grande impegno.
Giordana, il regista, introduce con non-chalance ma anche disseminando nell'aria segnali che qualcosa sta per avvenire, l'incontro tra Nicola e la fotografa. Siamo all'indomani dell'omicidio di Falcone e un prete antimafia in mezzo a un cerchio di persone promuove degli slogan. Tutti iniziano con l'espressione "C'impegniamo...", è un mantra che ricorre continuamente. Il prete potrebbe essere Don Puglisi, che morirà, anch’egli, per mano mafiosa qualche anno dopo.

Una giornata di sole di Roberto Faenza, 1995

Nella scena di Giordana la folla di persone che animano l'assembramento nella chiesa è varissima: donne, uomini, giovani, anziani, casalinghe, studenti, ... Potrei essere una di questi, li vedo, li riconosco, io c'ero, anche se non a Palermo, ho vissuto quegli anni e quell'impegno.
Nicola Carati gira intorno alla folla, molto discreto, quasi timoroso, stringe a sé la sua cartella, che sembra proteggerlo dal suo evidente stato di fragilità. Cerca l'unica altra persona che non stia parlando e che, come lui, condivide il senso di quell'evento, ma ne è solo osservatore. Incontra lo sguardo di Mirella Utano (Maya Sansa). Quando penso a questa scena la ricordo sempre avvolta nel colore marrone della terra, la Terra, ovvero la Patria.

domenica 15 marzo 2020

L'EDUCAZIONE AL POSSIBILE. RIFLESSIONI SULL'EMERGENZA DEL CORONAVIRUS



Il 10 marzo del 1982 ci fu un allineamento dei pianeti, un fenomeno astronomico raro, che accade meno di una volta in un secolo di tempo. Da alcune fonti fu indicato come un evento pericoloso, che avrebbe potuto portare alla fine del mondo e ricordo che, tra il serio e il faceto, alcuni canali televisivi rappresentarono immagini di un possibile svolgimento dell’infausto evento. A diversi mesi dal compiere 11 anni, non la presi affatto bene. Mi rivolgevo ai miei adulti per rappresentare il mio stato d’ansia e uno di loro mi mise di fronte alla realtà: “Non siamo eterni. È improbabile che questo evento accada, ma è possibile, in ogni caso io non lo posso prevedere”.
Oggi, di fronte all’esplodere in Italia del numero di contagi per il Coronavirus, che, soprattutto in Cina, da cui geograficamente ha avuto origine, ha già mietuto oltre duemila vittime (nel frattempo sono più di 6000), alcuni di noi ripercorrono le sensazioni e i timori di quel frangente del 1982. Tuttavia, i ruoli si sono, naturalmente, invertiti. I nostri figli ci chiedono: “Hai mai vissuto un’epidemia?”, e noi, con un certo sconcerto, dobbiamo rispondere di no, giacché la diffusione dell’HIV negli anni Ottanta, che spaventò soprattutto chi allora si affacciava alla vita sessuale e ne determinò permanentemente le paure e gli atteggiamenti, era qualcosa di molto diverso, di collegato a una serie circoscritta di azioni, benché producesse una malattia molto più grave di quella riferita all’infezione da Coronavirus. Dovremmo ancora far riferimento alla generazione più anziana, che ha conosciuto l’influenza asiatica degli anni 1957-1960, o quella di Hong Kong del 1968, per poter avere un paragone storico abbastanza adeguato alla situazione che si prospetta. Ma, in generale, facciamo fatica, o alcuni di noi la fanno, ad assumerci in pieno il ruolo dell’animale adulto (perché noi, soprattutto dal punto di vista del virus – ci dicono i virologi – siamo animali), che, conscio della sua finitudine, rasserena il suo cucciolo e contemporaneamente gli insegna, a piccoli passi, la mortalità.
La paura della fine si manifesta soprattutto come paura del cambiamento totale dei tempi e degli approcci alla quotidianità, dello svuotamento dei suoi luoghi, di gesti d’affetto che, inevitabilmente, devono essere censurati e limitati, non sappiamo per quanto tempo e se questo tempo sarà sufficiente a cambiarci per sempre. L’immaginario cinematografico, di solito così efficace nella funzione consolatoria, in questo caso tende a far aumentare la paura, con le sue metafore apocalittiche e le sue atmosfere malinconiche e distopiche, da The day after di Nicholas Meyer del 1983, a Titanic di James Cameron del 1997, a – soprattutto – On the beach di Russell Mulcahy del 2000.
Questa situazione di spavento, di incertezza collettiva, giacché in qualche modo ricaccia nello stato mentale dell’adolescenza, facilmente ne rievoca le immagini e narrazioni, quelle che catturano il desiderio di normalità che nasce in un momento surreale:

Un giorno credi questa guerra finirà
Ritornerà la pace ed il burro abbonderà
Andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà
Oggi pietà l’è morta ma un bel giorno rinascerà.
F. De Gregori, San Lorenzo, 1982;

o, diversamente, suggerisce l’idea di un’autodistruzione, che coinvolge la società adulta, fino a colpire la classe dirigente, ma preserva i bambini, come nell’interpretazione di Bennato della fiaba del Pifferaio di Hameln:
E. Bennato, È arrivato un bastimento, Mondadori, Milano 1984, Illustrazione di Giampaolo Chies.

Oppure richiama le atmosfere più consolanti e familiari:
Su per le scale il buio
Ma una luce corre dentro agli occhi
Sono un bambino io
Con ancora i graffi sui ginocchi
Dalla cucina una voce cara
Mia madre che mi dice:
“Non farti cadere le braccia
Non arrenderti né ora né mai”.
E. Bennato, Non farti cadere le braccia, 1973.

Le settimane sono passate, l’incubo si è fatto più vicino, la paura, però, non è aumentata, perché i pericoli, quando li vedi arrivare da lontano, sono vaghi e senza contorni, ma i contorni con la vicinanza si definiscono, forse puoi toccare l’oggetto, forse puoi combatterlo. Il virus si è portato via un carissimo amico di famiglia.
L’educazione al possibile, la pedagogia della morte, la pedagogia dell’emergenza: queste parole, alcune delle nostre Maestre e dei nostri Maestri, sembrano senza significato ora, ma non lo sono, ci hanno nutrito a modo loro, ci hanno forse anche preparato. Non sappiamo quando e come torneremo a qualche forma di normalità, ma forse non ci torneremo, come mi suggerisce acutamente qualcuno.
Dennis Lehane, nel romanzo Mystic River, descrive le sensazioni di un ragazzo il cui amico era stato rapito e stuprato. Egli pensa che non lo rivedrà mai più. Infatti, non rivedrà più quel ragazzo che era stato rapito, quello che torna è una persona definitivamente cambiata dall’evento, un’altra persona. Non torneremo quelli che siamo stati, saremo diversi e dovremo affrontare con forza e dignità questo cambiamento.

domenica 26 gennaio 2020

LEVANTE, JUNIOR CALLY, AMADEUS E QUALCHE ALTRA STORIA


Come suggerisce Levante, una cantautrice giovane, autorevole, sono andata a leggermi il testo di Junior Cally, Strega, al centro di polemiche su sessismo. E, ancora per "suggerimento" di Levante, sono andata a leggere Stan di Eminem. Non so perché l'ho fatto. Non sono fan del rap, musica che non amo e non capisco, non sono fan di Junior Cally, che non conosco e di cui mi importa poco. Forse l'ho fatto per mio figlio, perché a lui di Junior Cally, sì che importa.

 Lui dice che Junior Cally scrive canzoni bellissime, che egli era una vittima di bulli per tutti gli anni di scuola, che gli dicevano che doveva coprirsi la sua brutta faccia, cosa che lui continua a fare in pubblico. Gli ho chiesto perché una vittima di bullismo debba a sua volta scrivere testi così violenti. Lui mi ha risposto: "Questo non lo so, forse però è per dire ai suoi bulli: 'Guardate dove sono e cosa faccio!'". Io, mentalmente, ho tradotto: "Guardate cosa e come sono diventato, nel bene e nel male, grazie e per colpa vostra". 

È una storia suggestiva, che si ripete nell'arte e nella musica infinite volte. Ma certo mi spiaceva anche per Amadeus, un uomo di spettacolo non eccelso, ma certo mai aggressivo, né, maschilista, a parte quella frase infelice, come ha ricordato anche Levante.
Perché più passa il tempo, più detesto il radical chic in televisione, con i suoi Fazio, Gramellini e compagnia cantante, buoni per ogni stagione politica, purché in voga, più apprezzo il popolare, il popolare vero, o quello che a me sembra tale.
Io non credo che la violenza verso le donne nell'arte popolare non debba essere nominata, per essere sconfitta. Perché che debba essere sconfitta, su questo non c'è alcun dubbio, Né io ho dubbi sul fatto che gli artisti debbano sentirsi impegnati nello sconfiggere la violenza, perché l'arte è vita e la vita è impegno morale; ma non è certo facile stabilire attraverso quali forme.
C'è un enorme livello di conformismo nell'espressione artistica, che fa paura; quando artisti rinomati dicono porcherie ci "leviamo tutti il cappello" e diciamo; beh, è orrendo ma forse l'ha descritto in modo così poetico che voleva dire qualcos'altro. Invece, non voleva dire affatto qualcos'altro.
Quando Sergio Leone rappresenta con tanta gioia e compiacimento la violenta animalità dei suoi personaggi e la diabolica, autolesionista, seduttività delle protagoniste, in C'era una volta in America e C'era una volta il West; o Stanley Kubrik in Arancia meccanica; o Francis Ford Coppola ne Il padrino, o Bertolucci ne L'ultimo tango a Parigi e noi stiamo ad applaudire e ad ammirare, stiamo forse facendo un favore a quella causa che oggi diciamo di sostenere? Non credo proprio e, per quanto mi riguarda - mi perdoni Ennio Morricone, unico grande Maestro - quei film sono stati archiviati e da tempo estromessi dai "preferiti di ogni epoca".
Tornando a cose più modeste, quindi, io darei una chance ad Amadeus, questo ex ragazzo appassionato di musica che per primo presentò i Cranberries in Italia, che voleva - ce lo siamo già dimenticato - far parlare una giornalista di origine palestinese a Sanremo e che, se non altro, ha riportato Irene Grandi in gara al Festival.

Il profilo di Irene Grandi, tratto dl video di Un vento senza nome