Il 10 marzo del 1982 ci fu un
allineamento dei pianeti, un fenomeno astronomico raro, che accade meno di una
volta in un secolo di tempo. Da alcune fonti fu indicato come un evento
pericoloso, che avrebbe potuto portare alla fine del mondo e ricordo che, tra
il serio e il faceto, alcuni canali televisivi rappresentarono immagini di un
possibile svolgimento dell’infausto evento. A diversi mesi dal compiere 11
anni, non la presi affatto bene. Mi rivolgevo ai miei adulti per rappresentare
il mio stato d’ansia e uno di loro mi mise di fronte alla realtà: “Non siamo
eterni. È improbabile che questo evento accada, ma è possibile, in ogni caso io
non lo posso prevedere”.
Oggi, di fronte all’esplodere in
Italia del numero di contagi per il Coronavirus, che, soprattutto in Cina, da
cui geograficamente ha avuto origine, ha già mietuto oltre duemila vittime (nel frattempo sono più di 6000), alcuni di noi ripercorrono le sensazioni e i timori di quel
frangente del 1982. Tuttavia, i ruoli si sono, naturalmente, invertiti. I
nostri figli ci chiedono: “Hai mai vissuto un’epidemia?”, e noi, con un certo
sconcerto, dobbiamo rispondere di no, giacché la diffusione dell’HIV negli anni
Ottanta, che spaventò soprattutto chi allora si affacciava alla vita sessuale e
ne determinò permanentemente le paure e gli atteggiamenti, era qualcosa di
molto diverso, di collegato a una serie circoscritta di azioni, benché
producesse una malattia molto più grave di quella riferita all’infezione da
Coronavirus. Dovremmo ancora far riferimento alla generazione più anziana, che
ha conosciuto l’influenza asiatica degli anni 1957-1960, o quella di Hong Kong
del 1968, per poter avere un paragone storico abbastanza adeguato alla
situazione che si prospetta. Ma, in generale, facciamo fatica, o alcuni di noi
la fanno, ad assumerci in pieno il ruolo dell’animale adulto (perché noi,
soprattutto dal punto di vista del virus – ci dicono i virologi – siamo
animali), che, conscio della sua finitudine, rasserena il suo cucciolo e
contemporaneamente gli insegna, a piccoli passi, la mortalità.
La paura della fine si manifesta
soprattutto come paura del cambiamento totale dei tempi e degli approcci alla
quotidianità, dello svuotamento dei suoi luoghi, di gesti d’affetto che,
inevitabilmente, devono essere censurati e limitati, non sappiamo per quanto
tempo e se questo tempo sarà sufficiente a cambiarci per sempre. L’immaginario
cinematografico, di solito così efficace nella funzione consolatoria, in questo
caso tende a far aumentare la paura, con le sue metafore apocalittiche e le sue
atmosfere malinconiche e distopiche, da The day after di Nicholas Meyer del 1983, a Titanic
di James Cameron del 1997, a – soprattutto – On the beach di Russell Mulcahy del 2000.
Questa situazione di spavento, di
incertezza collettiva, giacché in qualche modo ricaccia nello stato mentale
dell’adolescenza, facilmente ne rievoca le immagini e narrazioni, quelle che
catturano il desiderio di normalità che nasce in un momento surreale:
Un giorno credi questa guerra
finirà
Ritornerà la pace ed il burro
abbonderà
Andremo a pranzo la domenica
fuori porta a Cinecittà
Oggi pietà l’è morta ma un bel
giorno rinascerà.
F. De Gregori, San Lorenzo,
1982;
o, diversamente, suggerisce l’idea di
un’autodistruzione, che coinvolge la società adulta, fino a colpire la classe
dirigente, ma preserva i bambini, come nell’interpretazione di Bennato della
fiaba del Pifferaio di Hameln:
E. Bennato, È arrivato un
bastimento, Mondadori, Milano 1984, Illustrazione di Giampaolo Chies.
Oppure richiama le atmosfere più
consolanti e familiari:
Su per le scale il buio
Ma una luce corre dentro agli
occhi
Sono un bambino io
Con ancora i graffi sui
ginocchi
Dalla cucina una voce cara
Mia madre che mi dice:
“Non farti cadere le braccia
Non arrenderti né ora né mai”.
E. Bennato, Non farti cadere
le braccia, 1973.
Le settimane sono passate, l’incubo
si è fatto più vicino, la paura, però, non è aumentata, perché i pericoli,
quando li vedi arrivare da lontano, sono vaghi e senza contorni, ma i contorni
con la vicinanza si definiscono, forse puoi toccare l’oggetto, forse puoi
combatterlo. Il virus si è portato via un carissimo amico di famiglia.
L’educazione al possibile, la
pedagogia della morte, la pedagogia dell’emergenza: queste parole, alcune delle
nostre Maestre e dei nostri Maestri, sembrano senza significato ora, ma non lo
sono, ci hanno nutrito a modo loro, ci hanno forse anche preparato. Non sappiamo
quando e come torneremo a qualche forma di normalità, ma forse non ci torneremo,
come mi suggerisce acutamente qualcuno.
Dennis Lehane, nel romanzo Mystic
River, descrive le sensazioni di un ragazzo il cui amico era stato rapito e
stuprato. Egli pensa che non lo rivedrà mai più. Infatti, non rivedrà più quel
ragazzo che era stato rapito, quello che torna è una persona definitivamente
cambiata dall’evento, un’altra persona. Non torneremo quelli che siamo
stati, saremo diversi e dovremo affrontare con forza e dignità questo
cambiamento.
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