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domenica 15 marzo 2020

L'EDUCAZIONE AL POSSIBILE. RIFLESSIONI SULL'EMERGENZA DEL CORONAVIRUS



Il 10 marzo del 1982 ci fu un allineamento dei pianeti, un fenomeno astronomico raro, che accade meno di una volta in un secolo di tempo. Da alcune fonti fu indicato come un evento pericoloso, che avrebbe potuto portare alla fine del mondo e ricordo che, tra il serio e il faceto, alcuni canali televisivi rappresentarono immagini di un possibile svolgimento dell’infausto evento. A diversi mesi dal compiere 11 anni, non la presi affatto bene. Mi rivolgevo ai miei adulti per rappresentare il mio stato d’ansia e uno di loro mi mise di fronte alla realtà: “Non siamo eterni. È improbabile che questo evento accada, ma è possibile, in ogni caso io non lo posso prevedere”.
Oggi, di fronte all’esplodere in Italia del numero di contagi per il Coronavirus, che, soprattutto in Cina, da cui geograficamente ha avuto origine, ha già mietuto oltre duemila vittime (nel frattempo sono più di 6000), alcuni di noi ripercorrono le sensazioni e i timori di quel frangente del 1982. Tuttavia, i ruoli si sono, naturalmente, invertiti. I nostri figli ci chiedono: “Hai mai vissuto un’epidemia?”, e noi, con un certo sconcerto, dobbiamo rispondere di no, giacché la diffusione dell’HIV negli anni Ottanta, che spaventò soprattutto chi allora si affacciava alla vita sessuale e ne determinò permanentemente le paure e gli atteggiamenti, era qualcosa di molto diverso, di collegato a una serie circoscritta di azioni, benché producesse una malattia molto più grave di quella riferita all’infezione da Coronavirus. Dovremmo ancora far riferimento alla generazione più anziana, che ha conosciuto l’influenza asiatica degli anni 1957-1960, o quella di Hong Kong del 1968, per poter avere un paragone storico abbastanza adeguato alla situazione che si prospetta. Ma, in generale, facciamo fatica, o alcuni di noi la fanno, ad assumerci in pieno il ruolo dell’animale adulto (perché noi, soprattutto dal punto di vista del virus – ci dicono i virologi – siamo animali), che, conscio della sua finitudine, rasserena il suo cucciolo e contemporaneamente gli insegna, a piccoli passi, la mortalità.
La paura della fine si manifesta soprattutto come paura del cambiamento totale dei tempi e degli approcci alla quotidianità, dello svuotamento dei suoi luoghi, di gesti d’affetto che, inevitabilmente, devono essere censurati e limitati, non sappiamo per quanto tempo e se questo tempo sarà sufficiente a cambiarci per sempre. L’immaginario cinematografico, di solito così efficace nella funzione consolatoria, in questo caso tende a far aumentare la paura, con le sue metafore apocalittiche e le sue atmosfere malinconiche e distopiche, da The day after di Nicholas Meyer del 1983, a Titanic di James Cameron del 1997, a – soprattutto – On the beach di Russell Mulcahy del 2000.
Questa situazione di spavento, di incertezza collettiva, giacché in qualche modo ricaccia nello stato mentale dell’adolescenza, facilmente ne rievoca le immagini e narrazioni, quelle che catturano il desiderio di normalità che nasce in un momento surreale:

Un giorno credi questa guerra finirà
Ritornerà la pace ed il burro abbonderà
Andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà
Oggi pietà l’è morta ma un bel giorno rinascerà.
F. De Gregori, San Lorenzo, 1982;

o, diversamente, suggerisce l’idea di un’autodistruzione, che coinvolge la società adulta, fino a colpire la classe dirigente, ma preserva i bambini, come nell’interpretazione di Bennato della fiaba del Pifferaio di Hameln:
E. Bennato, È arrivato un bastimento, Mondadori, Milano 1984, Illustrazione di Giampaolo Chies.

Oppure richiama le atmosfere più consolanti e familiari:
Su per le scale il buio
Ma una luce corre dentro agli occhi
Sono un bambino io
Con ancora i graffi sui ginocchi
Dalla cucina una voce cara
Mia madre che mi dice:
“Non farti cadere le braccia
Non arrenderti né ora né mai”.
E. Bennato, Non farti cadere le braccia, 1973.

Le settimane sono passate, l’incubo si è fatto più vicino, la paura, però, non è aumentata, perché i pericoli, quando li vedi arrivare da lontano, sono vaghi e senza contorni, ma i contorni con la vicinanza si definiscono, forse puoi toccare l’oggetto, forse puoi combatterlo. Il virus si è portato via un carissimo amico di famiglia.
L’educazione al possibile, la pedagogia della morte, la pedagogia dell’emergenza: queste parole, alcune delle nostre Maestre e dei nostri Maestri, sembrano senza significato ora, ma non lo sono, ci hanno nutrito a modo loro, ci hanno forse anche preparato. Non sappiamo quando e come torneremo a qualche forma di normalità, ma forse non ci torneremo, come mi suggerisce acutamente qualcuno.
Dennis Lehane, nel romanzo Mystic River, descrive le sensazioni di un ragazzo il cui amico era stato rapito e stuprato. Egli pensa che non lo rivedrà mai più. Infatti, non rivedrà più quel ragazzo che era stato rapito, quello che torna è una persona definitivamente cambiata dall’evento, un’altra persona. Non torneremo quelli che siamo stati, saremo diversi e dovremo affrontare con forza e dignità questo cambiamento.