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giovedì 29 luglio 2021

PALESTINA, sport e politica

Dania Nour, giovanissima nuotatrice palestinese alle Olimpiadi di Tokyo 


Due judoka, uno algerino e l’altro sudanese si sono rifiutati di incontrare un avversario israeliano e sono stati licenziati dalle Olimpiadi di Tokyo.

Vorrei fare alcune considerazioni su questi fenomeni. Innanzitutto, salta agli occhi il fatto che gli atleti in questione non siano palestinesi. Si può dire che essendo la delegazione palestinese alle Olimpiadi molto piccola, è poco probabile che vi siano scontri diretti con gli israeliani e che i palestinesi sceglierebbero, a maggior ragione, di sottrarsi agli incontri. Ma si può anche pensare che i palestinesi, paradossalmente, non adotterebbero una protesta di questo tipo, perché…”non è il loro stile”. Poco ne so, ma un po’ più di molti che fingono di sapere, ma, appunto, non vi è alcuna controprova.

Ho letto alcuni commenti secondo i quali le scelte anti-israeliane degli atleti in questione sarebbero razziste. Non sono molto d’accordo: il punto della questione non è l’antisemitismo, non siamo cioè di fronte a un rifiuto discriminatorio, attuato contro rappresentanti di un popolo segregato e discriminato. Siamo di fronte a due soggetti che, dopo anni di allenamenti, “fatica e botte” (vista la disciplina, la citazione di Ligabue non è fuori posto), giungono all’apice internazionale di tutti i percorsi delle discipline sportive, l’Olimpo, appunto, e rinunciano a gareggiare. E vi rinunciano per manifestare la loro adesione a una causa che non riguarda neppure il loro Paese! Credo che questi atteggiamenti meritino, perlomeno, una riflessione più attenta di un frettoloso etichettamento. 

Si può semmai riflettere sull’impatto delle modalità della protesta. È il rifiuto l’unica strada? La rinuncia? Soprattutto, è giusto caricare sulle spalle di uno sportivo (israeliano) il peso immane della crudele politica del suo Paese? Non credo. Credo che lo sport abbia un suo linguaggio simbolico molto potente, che veicola messaggi di amicizia, solidarietà, ma anche di rivalsa, di rivincita. Perché rinunciare a confrontarsi con un atleta israeliano, provando a prevalere sul campo, sperando di poter inviare quello stesso messaggio, dimostrando la propria capacità, forza sportiva, in modo leale e aperto?

Non sarebbe errato fare questa considerazione, ma nemmeno domandarsi perché questa causa continui da decenni a generare sacrifici, sportivi, simbolici, ma a volte anche più crudamente oggettivi, di persone che gratuitamente, inopinatamente, prendono decisioni eclatanti.