È
una sera del 1988 o del 1989, in Svizzera. Io sono rimasta sveglia sino a tardi
e guardo un film cupo, degli anni Settanta, con Jane Fonda; con le cuffie allo
stereo ascolto le prime note di pianoforte di “Racing In The Street”, in Darkness
On The Edge Of Town di Springsteen e comincio a viaggiare.
Non
è la prima volta che intraprendo questo viaggio: ero molto più piccola quando
l’ho iniziato. Avevo un libro sui Cowboys in cui non erano descritte né
sparatorie né eroismi o conquiste né glamour, ma solo una vita grama e
pericolosa dietro i pascoli e da allora mi ero fatta l’idea che l’America sia
un luogo triste e immenso.
Ho
letto Kerouac ma mi è rimasto dentro Least-Heat Moon, non mi interessano i
grandi paesaggi urbani, preferisco le Strade Blu.
Delle
scene viste e riviste di Ufficiale e Gentiluomo amo molto quella sulla
spiaggia sassosa, il clima piovoso e il mare cupo, il dialogo dei protagonisti.
Insomma,
l’America è un luogo di immensa malinconia per me. Nello stesso tempo, però, la
musica americana la trovo immensamente gioiosa. Sembra proiettarsi in uno
spazio infinito, sembra sfiorare l’essenza delle cose senza mai riuscire a
coglierla. Quando la musica americana è grande è straodinariamente generosa e
umana: Tracy Chapman, Sheryl Crow, Natalie Merchant, Joan Baez, Ben Harper...
Mentre
ero negli U.S.A., l’estate scorsa, un mio amico di Washington ci ha fatto
vedere i luoghi della storia d’America: dalle undici di sera alle due di notte
abbiamo visitato, al buio, soli noi tre, il memoriale di Jefferson, quello di
Roosevelt e quello dei militi ignoti morti in Vietnam. Abbiamo visto anche, da
lontano, la Casa Bianca. Siamo andati al “Reflecting Pool” e abbiamo scherzato,
urlando “Jenni!” come Tom Hanks in Forrest Gump, sperando che lei a un
certo punto si decidesse a staccarsi dalla folla e a corrergli incontro.
La
cosa che mi sembrava più assurda era che non c’era nessuno! Era possibile che
avessero girato lì, veramente, Forrest Gump? Era possibile che
non si vedesse nessuno vicino alla Casa Bianca? Quel luogo da cui spesso,
sciaguratamente, si decidono i destini del mondo?
Risalendo
da Washington, nel tratto di autostrada tra Philadelphia e New York, ho visto
un cartello che indicava la scritta “Freehold”, il paese di Bruce Springsteen.
Sembrava tale e quale alla deviazione per Zurigo nella Berna-Basilea, o a
quella per Brescia nella “Serenissima”. Solo a un certo punto mi sono sporta
meglio dall’autobus e ho visto una strada della periferia americana, di quelle
polverose del libro sui Cowboys, o, forse, di “Independence Day”, “Atlantic
City”, “None But The Brave”…E mi sono risuonati dentro accordi di chitarra,
assoli di sassofono, incontenibili slanci di vita che hanno sempre un fondo di
malinconia.
Questa
strana nostalgia che ho per l’America in tedesco non si definisce Heimweh (“dolore per il desiderio di
tornare a casa”), bensì Fernweh (“dolore
per il desiderio di vedere luoghi stranieri”). Non so quando finirà; forse
quando anch’io avrò qualcuno a cui dire le parole che Debra Winger pronuncia
nella famosa scena della spiaggia sassosa ed esse saranno corrisposte. Allora
manderò tutto affettuosamente a quel paese e mi sentirò finalmente a casa in
questa dura Sardegna, this hard land.
“…mi piacerebbe vedere sorgere il sole
tra le braccia di uno straniero…”
“Home”,
Sheryl Crow
Nessun commento:
Posta un commento