mercoledì 19 ottobre 2005

LA GEOGRAFIA DELL'ANIMA DI JONI MITCHELL



Blue, l’album del 1971 della cantautrice canadese Joni Mitchell, al secolo Roberta Joan Anderson, è  – assieme a Harvest del suo connazionale Neil Young, come ho avuto già modo di dire – qualcosa di cui mi onoro di essere coetanea. È un disco nel quale molti, molto più autorevolmente di me, hanno visto l’inizio assoluto e spesso il capolavoro insuperato del cantautorato femminile; per le caratteristiche marcate di confessionalità ed emotività che anche molte artiste dopo Joni Mitchell incarneranno e per quelle, personalissime di Mitchell, dell’uso della voce in una sorta di “soprano folk”, della melodia imprevedibile e incantevole e di un’interpretazione originale della musica West Coast degli ultimi anni Sessanta e primi anni Settanta.
A tutto ciò, a profani come noi, resta quindi ben poco da aggiungere. Però è interessante tentare un percorso attraverso Blue che consideri in particolare la descrizione, “impressionistica”, dei luoghi geografici nel loro significato di “luoghi dell’anima”, che di volta in volta rappresentano, per la protagonista, mete ardentemente desiderate o inferni da cui fuggire. Attraverso l’eterna metafora del viaggio Joni Mitchell racconta il tema dell’irrequieta ricerca di realizzazione e serenità, ma forse anche quello di una soggettività che vuole emergere – rappresentandola ma anche restandone in qualche modo, orgogliosamente, ai margini – dalla generazione di Woodstock.

L’album si apre con la dichiarazione, insieme entusiasta e confusa, di “All I Want”: “Sono su una strada solitaria e sto viaggiando, viaggiando, viaggiando, viaggiando/ Cercando qualcosa, cosa può essere?…”. Quello che inizia come viaggio solitario di una donna si evolve nella descrizione della ricerca di un amore autentico, romantico, ma non convenzionale. Capiamo subito, però, che questo viaggio sarà pieno di dolore e di un’insondabile e incomprensibile malinconia (“tutti e due diventiamo così tristi…”).
La tristezza è in agguato anche in “My Old Man”, il prototipo delle canzoni d’amore dedicate a First Gentlemen identificabili dei nostri giorni –  in questo caso pare si trattasse di Graham Nash– e in “Little Green”, in cui Joni Mitchell adombra il dispiacere per l’abbandono di una figlia avuta in età non ancora matura per essere madre. In “Little Green” troviamo un primo “indicatore geografico” a guidarci in questo percorso di scoperta; infatti, parlando del padre della bambina, Joni Mitchell canta: “Lui è andato in California/ avendo sentito che laggiù tutto è più caldo…” Tutto è più caldo che nel natio Saskatchewan, forse?
La cantante/pittrice, pensiamo, ha preso la strada della California. Tuttavia, già nella canzone seguente, “Carey”, la troviamo in un luogo dove…”soffia il vento dell’Africa” e lei medita di andare “forse ad Amsterdam, forse a Roma”. “Carey” si riferisce al periodo che Joni passò a Cipro in una comunità di figli dei fiori e rende fortemente il clima scanzonato della situazione ma altrettanto fortemente l’irrequietezza del personaggio, che non si adatta a un contesto in cui mancano “le lenzuola bianche…il profumo francese”.
“Blue” è il luogo/non luogo della tristezza e delle contraddizioni (la droga, l’alcool, la perdita di senso, ma anche la storia d’amore con James Taylor, dice il gossip storico della music pop), desiderio di ancoraggio e insieme di ulteriore navigazione, di immersione nell’inferno e insieme di riemersione. Sarah McLachlan cantava una cover di questo brano nei concerti del 1996, quel periodo di depressione e di innamoramento/creatività da cui nacque il suo Surfacing. È significativo il fatto che, in mezzo a tutte le indicazioni geografiche presenti nel disco di Joni Mitchell, proprio la title-track sia così sospesa nello spazio e nel tempo, come a significare che il viaggio in questione non ha una vera meta e ancora una volta, come a descrivere la forte soggettività di Mitchell, icona della gioventù anni Sessanta da un lato, artista unica e inclassificabile dall’altro.
Con “California” la meta geografica è evidente, così come lo è l’adesione musicale allo spirito West Coast: Joni inizia il suo viaggio “seduta in un parco a Parigi, Francia” o in una “isola greca”, ma trova che tutto sia “vecchio e freddo e immutabile nei modi ” e che le strade siano piene di stranieri, che la riempiono di…blues. Dunque la vediamo acchiappare un aereo per la Spagna, restarvi fino a rifarsi l’abbronzatura e volare di nuovo in California, “a  casa”, come se casa lo fosse davvero.
“This Flight Tonight”, a dimostrazione dell’importanza del tema dello spostamento in Blue, consiste quasi interamente nella descrizione di un atterraggio a Las Vegas. La viaggiatrice, tuttavia, ci appare più inquieta rispetto al ritrovo di un vecchio amore che felice di rientrare a casa e la malinconia incipiente non è che un presagio alla parte più struggente, cupa e bella dell’album.
Il capitolo seguente del disco è “River”, una sorta di “Jingle Bells” distorta, a mio avviso il grande capolavoro di Blue: ritroviamo Joni Mitchell, che avevamo lasciato ansiosa di toccare terra nella calda California, triste perché “sta arrivando il Natale…ma non nevica, rimane tutto verde” e desiderosa di “avere un fiume su cui pattinare via”. L’agognato verde primaverile della California è ora agente di tristezza e si desidera solo di pattinare in un fiume gelato: ricordo natalizio dell’infanzia canadese?
L’ipotesi prende ulteriormente forma in “A Case Of You”, pezzo amatissimo, riproposto da tante grandi seguaci di Joni Mitchell, da Tori Amos a Diana Krall a k.d. lang, in cui la nostalgia e la tensione amorosa assumono i toni del rimpianto per la patria lontana in un’indimenticabile immagine: “sul retro di una superficie di cartone/ nella luce blu della T.V./ Ho disegnato una mappa del Canada/ Oh Canada/ Col tuo viso schizzato due volte”.
Nella conclusiva “The Last Time I Saw Richard” lo spirito solare della West Coast se n’è andato definitivamente come se ne stanno andando gli anni Sessanta. Si parla di disincanto e perdita di ideali, di un ultimo incontro con un ex sognatore a Detroit nel ’68. Ma anche le “giornate da bar oscuro”, canta Joni, sono solo una fase e lei, ancora una volta, metterà “splendide ali e volerà via”.

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